San Giovanni delle Contee è sin dal nome, un luogo di confine. Oggi è quello tra Toscana e Lazio. E l’Umbria non è poi così lontana.
La Maremma è vicina, ma non siamo in Maremma, perché troppo nell’interno. Il Monte Amiata è vicino, ma non siamo sul Monte Amiata, perché troppo a sud. Siamo in un luogo che alcuni chiamano la Terra del Tufo o le Colline delle Valli del Fiora, ma sono invenzioni recenti e che nessuno realmente usa. In realtà vien da pensare che questa terra un nome suo non l’abbia mai davvero avuto. Secondo alcuni è per via della sua irrivelanza storica. Io credo invece che qua la gente sia sempre stata povera abbastanza da non aver tempo per cose frivole come dare un nome alla propria terra. Bastava che questa riuscisse almeno a sfamare qualche bocca, che sopravvivesse abbastanza da generarne altre. Che poi quelle bocche non avessero un nome per chiamare la terra che a malapena le sfamava, era un problema di poco conto (e chissà che poi, se un nome ci fosse stato, non avrebbe finito per essere un’imprecazione com’è per la Maremma).
La terra
Che poi, a pensarci bene, la terra dove sorge San Giovanni delle Contee è terra di confine da circa 400mila anni, quando una serie di vulcani che oggi sono laghi dell’alto Lazio, sono letteralmente esplosi, proiettando in aria per decine e decine di km intorno, migliaia di tonnellate di polveri vulcaniche. Queste sono ricadute a terra e, nel corso dei secoli, si sono sedimentate in quella morbida roccia che si chiama tufo e che caratterizza gran parte del territorio che oggi sta tra bassa Toscana e alto Lazio. Si tratta di polveri di varie esplosioni, succedutesi attraverso i millenni e questo spiega perché, sotto il generico nome di tufo, si trovino terre fra loro molto diverse. Se infatti si procede da San Giovanni delle Contee in direzione Sorano si trovano nel giro di pochi km una vecchia cava di pietra pomice, una cava, anch’essa dismessa, di enfero (materiale più duro, scuro di colore, usato tipicamente per i fondi di stufe, forni e fornaci), una cava di tufo da costruzione e una di zeolite (oggi sempre più usata nell’agricoltura biologica).
Quelle polveri caddero per buona parte sopra uno strato di argilla che si trovava lì da ben 4 milioni di anni prima, un periodo chiamato Pliocene. Quell’argilla, la stessa che si trova per tutta la Val d’Orcia e oltre, era il fondale di un mare che si è ritirato proprio durante il Pliocene, ma che ancora oggi capita di ritrovare in qualche fossile che affiora quando si lavora la terra.
Ecco, San Giovanni delle Contee è stata costruita proprio sull’ultimo sperone di tufo che s’affaccia su quel mare di argilla. E la cosa buffa è che subito dietro questa terrazza naturale che è la parte del paese che guarda a nordovest, arrivano le ultime pendici del comprensorio dell’Amiata. Anche questa montagna era un tempo un vulcano, ma le sue eruzioni si risolvevano in colate, che proprio alle porte di San Giovanni hanno fatto arrivare le proprie terre calcaree.
Nel raggio di non più di 1 km intorno al paese, è possibile trovare 3 distinti terreni, di 3 epoche geologiche diverse e su altitudini che passano da 3 a 800 metri. San Giovanni delle Contee è proprio nel punto di confine tra queste terre.
… e i suoi uomini
Argilla, roccia e tufo s’è detto. Formatisi nel corso delle ere geologiche e che poi si sono formati di nuovo nel loro rapporto con gli uomini che su quelle terre (e a volte anche dentro) hanno vissuto, lavorato, riposato per sempre.
L’argilla è terra ottima per il grano e la cosa è nota chissà da quanto. Di certo dai tempi di Columella (4-70 d.C.), il primo agronomo di successo (anche se la vera gloria arriverà postuma grazie al lavoro di Poggio Bracciolini nella prima metà del 1400) che nel primo dei suoi 10 libri in latino dedicati all’agricoltura, si occupa proprio dell’importanza dei suoli. Poco sotto San Giovanni delle Contee, sul lato nord-ovest del paese, dove inizia la distesa di argilla pliocenica, esiste ancora oggi un fossato chiamato “fosso del centurione, e poco distante ci sono testimonianze di un’antica villa di epoca romana. Quel che è facile immaginare è che il centurione in questione avesse ricevuto quella terra al termine della propria carriera militare, come di norma accadeva per garantire una pensione agli ufficiali romani. La cosa sorprendente è come il nome di quel luogo abbia attraversato i secoli e sia giunto fino a noi.
Che l’argilla fosse buona per il grano lo si è continuato a sapere anche nei secoli a venire. E per tanto tempo tutto quel che si vedeva da San Giovanni delle Contee a San Casciano dei Bagni apparteneva alla famiglia Bologna. “Di chi è qui?”, “Dei Bologna” ovunque e comunque. Era una battuta che faceva beffe delle immense proprietà della ricca famiglia ebrea che per volere dell’ultimo Granduca di Toscana ebbe a ricevere in dote quelle terre, che mantenne fino alla riforma agraria dei primi anni ’50 del ‘900. Oggi due discendenti di quella famiglia sono scrittori e sceneggiatori ed hanno dedicato belle pagine a quella terra, tanta e senza nome, che un tempo era tutta loro[1].
I monti nati dal vulcano e le sue colate nascondono invece un cuore di miniere che son state fortuna e disgrazia per tanti uomini della montagna, a partire dalla fine dell ‘800, fino agli anni ’80 del secolo scorso.
Infine il tufo, l’elemento che tra tutti ha stretto il rapporto più profondo con gli esseri umani che hanno abitato queste terre dall’antichità ad oggi. Perché il tufo grazie alla sua friabilità, è un materiale perfetto per essere scavato, modellato, utilizzato nei modi più vari. Gli etruschi ne fecero case e intere città, per i vivi e per i morti e la cosa non sorprende dato che per loro, la vita, era quella che ci aspettava oltre la morte. Ne fecero ambienti di lavoro come fornaci per fondere i metalli (se ne trova un esempio a San Rocco, proprio di fronte al paese di Sorano), ripari per animali e strade, le celebri via cave, che attraversano tanti boschi tra Sorano, Pitigliano, Sovana, San Quirico. Una vera e propria civiltà del tufo. Nel seguirsi dei secoli, tutti coloro che vissero in quelle terre, lo fecero in stretta simbiosi con la loro stessa materia e borghi come Sorano e Pitigliano, letteralmente scavati e scolpiti nel tufo, sono lì a testimoniarlo.
Terra di rifugio
Se il destino di confine fu segnato fin dalla notte dei tempi, le contee che San Giovanni porta nel nome erano quelle degli Ottieri, degli Orsini e di Santa Fiora, ma questa è materia per cultori. Più in generale – e qua chiunque può arrivarci – San Giovanni delle Contee è stato per secoli sul confine tra lo Stato Pontificio e le varie signorie che governavano, spesso distrattamente, il sud della Toscana, fossero queste senesi, fiorentine, austriache, piemontesi o d’altra origine.
Le terre di confine, lo sappiamo bene anche oggi, hanno mille sfortune. Nessuno se ne occupa realmente (vale per strade e infrastrutture in genere, per gli ospedali, le scuole e per tutti quei servizi che è strano chiamare essenziali anche quando mancano) e nessuno vuole averci troppo a che fare. Nel caso specifico sono anche terre storicamente povere e poco popolate, il che le ha rese e le rende ancora, assai poco interessanti persino per la politica dei cacciatori di voti.
In cambio, l’essere dimenticati, offre una grande libertà. Sarà per questo che le terre intorno a San Giovanni delle Contee han dato riparo a tanti che scappavano. E se c’è un popolo la cui storia è una storia di fughe ed erranza, ecco perché la vicina Pitigliano è stata conosciuta per secoli come la “piccola Gerusalemme”. Gli ebrei infatti, venivano periodicamente cacciati dal regno del Papa ed essendo i confini di questo regno proprio sul limitar di quelle Contee, questi, per non avere a far più strada del dovuto, installarono una piccola, ma importante comunità prima a Sorano e poi a Pitigliano, dove ancora oggi si trovano il cimitero ebraico, la sinagoga e il ghetto. Già, il ghetto. Nella tradizione culinaria di queste terre così nascoste ed isolate, c’è un dolce che racconta questa storia e racconta anche come la cosiddetta identità, non sia figlia di pretese purezze culturali, ma di commistioni e mescolanze. Il dolce si chiama “sfratto”. Ha un ripieno di miele, frutta secca e spezie, all’interno di una pasta frolla spalmata d’uovo. Gli ingredienti già raccontano bene di incroci locali e tradizione ebraica, ma è la forma di quel dolce, un piccolo bastone, a ricordare i bastoni con cui soranesi e pitiglianesi batterono alle porte dei compaesani ebrei, per dir loro di lasciare le proprie case e trasferirsi nel ghetto. Subire un sopruso, l’ennesimo, ed irriderlo trasformandolo in un dolce che viene fatto ancora oggi ed è una delle tradizioni culinarie più tipiche di quella terra, è la più dolce rivalsa che si possa immaginare.
… e nascondiglio
Ma una terra di confini dimenticati e di gente che scappa è anche, inevitabilmente, terra di briganti. Il padre di tutti loro fu Ghino di Tacco, che dall’impredibile rocca di Radicofani (che poi proprio imprendibile non era, dato che lui la prese) faceva scorribande per tutta la zona sul finire del 1200. E Radicofani è un elemento imprescindibile del paesaggio che da San Giovanni delle Contee si apre guardando a Nord. Sulla sinistra, ovvero a Ovest, sta il monte Amiata coi suoi 1.738 metri, sulla destra il Monte Cetona, 1.148 metri, al centro, appunto, Radicofani. Che di metri ne misura 814, ma la cui forma, che da piccolo mi ricordava un panettone con sopra una candeline (la torre della rocca) è talmente caratteristica da fargli guadagnare in carisma, quel che gli manca in altitudine. Certo la mitologia locale ha visto ben altro nella sua forma, dato che racconta del gigante che mise una chiappa sull’Amiata, l’altra sul Cetona, e cacò Radicofani. La mitologia locale sa essere piuttosto prosaica.
Di essa fa parte senza dubbio anche Domenico Tiburzi, “24 anni di latitanza armata nella macchia” come mi veniva spesso detto, quasi fosse una formula di rito, quando lo si rammentava. La foto di Tiburzi è stata appesa per tanto tempo nel bar del paese. La foto di un omone di 60 anni portati fra stenti e rudezze, due giri di cartucciera sopra la pancia, un fucilone poggiato di lato, giacca, barba, berretto ed occhi chiusi. Sì perché quella foto è, per essere precisi, la foto del cadavere di un uomo di 60 anni. La campagna contro il brigantaggio che la neonata monarchia italiana condusse faticosamente in quegli anni, si avvalse di un sostegno propagandistico che cercava di smontare innanzitutto l’aura mitica che circondava i banditi. Questa passava per cronache minuziose delle violenze dei briganti che le gazzette locali pubblicavano per i pochi alfabetizzati del tempo, ma soprattutto utilizzava le foto dei briganti uccisi (di norma si appoggiava il cadavere ad un albero e si piantava un chiodo dietro il collo della giacca, per tenerlo su) così da mostrare a tutti la fine che toccava a chi contravveniva la legge. Domenico Tiburzi venne ucciso e fotografato il 24 ottobre 1896 a Capalbio, dopo essere stato tradito da un sodale. Quello stesso cadavere venne sepolto mezzo dentro e mezzo fuori dal cimitero della cittadina maremmana.
D’arte
La comunità ebraica ormai non non esiste più ed anche i briganti son diventati altro. San Giovanni delle Contee oggi conta solo 150 abitanti ed i poderi intorno son quasi tutti disabitati, mentre un tempo erano casa per famiglie di decine di persone.
Su 150 abitanti, tuttavia, mi vien da contare che ci sono almeno 10 musicisti, ciascuno con la propria piccola attività portata avanti nel tempo libero tra concerti e serate. 1 musicista ogni 15 abitanti. Non è un caso, ma il portato di decenni in cui la festa del paese, celebrata la prima domenica di settembre in onore di Maria S.S. Addolorata, era celebre in tutti i dintorni per la sua incredibile essenza libertaria ed una scelta musicale che concedeva al liscio, così in voga tuttora, solo la domenica sera su quasi una settimana di festeggiamenti.
Il liscio venne di fatto boicottato a partire dalla festa del 1973 quando il comitato festeggiamenti, causa un cambio di equilibri interni, vide un radicale rinnovamento della dirigenza. I giovani erano capitanati da mio zio, Leopoldo Ciuffoletti, ed optarono per una scelta da Rischiatutto: spendere l’intero budget della festa (budget in buona parte figlio delle donazioni che venivano raccolte casa per casa dagli stessi membri del comitato nelle settimane antecedenti la festa) per invitare una band molto in voga in quel periodo: i Tritons.
Per chi non lo sapesse i New Trolls sono stati una band di enorme successo in a Italia, passando attraverso diversi generi (dal beat al prog, fino al pop melodico) e ancor più cambi di formazione, generando inoltre una miriade di gruppi laterali nati dalle continue scissioni interne. Una di queste (in realtà la sottoscissione di una scissione) generò i Tritons. Riprendo le parole del sito italianprog.com “un altro misterioso capitolo nella lunga saga dei New Trolls, I Tritons sono stati una derivazione degli Ibis, visto che durante le registrazioni del loro primo album Canti d’innocenza, canti d’esperienza, il gruppo riarrangiò il classico dei Rolling Stones Satisfaction, e la loro casa discografica, la Fonit, decise di farlo uscire su 45 giri sotto il nuovo nome di Tritons. Ma quando venne effettuata la registrazione, il batterista Gianni Belleno aveva già lasciato il gruppo, sostituito dall’ex batterista degli Atomic Rooster Ric Parnell. Il singolo fu un grande successo in Italia e all’estero”.
Continua…
[1] Si tratta di Filippo Bologna (“Come ho perso la guerra”, Fandango, 2009) e Antonio Leotti (“Il mestiere più antico del mondo”, Fandango, 2011 e “Nella valle senza nome”, Laterza, 2016).
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